Il 26 maggio scorso, a distanza di sedici anni dalla prima incriminazione del Tribunale dell’Aja emessa nei suoi confronti, Ratko Mladić è stato arrestato nel villaggio di Lazarevo, nella Provincia autonoma della Vojvodina, neanche cento chilometri a nord di Belgrado. Con la cattura del ricercato, che è accusato di genocidio e crimini contro l’umanità, il Presidente Tadić e il governo socialdemocratico compiono un passo importante in direzione dell’integrazione all’Unione Europea, sebbene per ottenere lo status di Paese candidato restino alla Serbia ancora molti ostacoli da superare.
Cambiamenti interni
Le imputazioni contro Mladić si riferiscono all’assedio di Sarajevo e all’eccidio di Srebrenica che, secondo il TPI rientra nella fattispecie di genocidio, essendo stato condotto dai serbo-bosniaci con l’intento di estirpare la comunità bosniaco-musulmana. All’epoca, Radovan Karadžić, arrestato con le medesime imputazioni nel 2008, rivestiva la carica di Presidente della Repubblica Serba (Republika Sprska) in Bosnia-Erzegovina, costituita nel 1992 in risposta alla secessione annunciata da Sarajevo. Mladić, in quanto Colonnello generale dell’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina, era il suo braccio armato, con ottantamila uomini sotto il suo comando.
La cattura di Mladić ad opera della polizia serba è il risultato dell’instaurarsi nel Paese di una mutata volontà politica e, più in concreto, dello smorzarsi della retorica nazionalista. La parabola della sua latitanza mette in luce la rete di protezioni di cui l’ex capo dell’Esercito serbo-bosniaco ha beneficiato nel corso degli anni. Basti pensare che fino alla caduta di Milošević, nel 2000, Mladić circolava liberamente, con un seguito di guardie del corpo stipendiate dallo Stato; eppure, le incriminazioni dell’Aja erano state rese note già nel 1995. I privilegi sono andati progressivamente diminuendo, tuttavia è probabile che il militare sia stato protetto dai servizi segreti e dalle forze armate almeno fino al 2008. Per una certa parte politica Mladić è, infatti, colui che ha difeso l’identità del popolo serbo in Bosnia-Erzegovina e tale convinzione è parte integrante dell’ideologia nazionalista, che ancora oggi gioca un ruolo determinante nella definizione degli equilibri interni e delle relazioni internazionali del Paese.
Al 2004 risale il primo segnale di svolta: l’elezione di Tadić, membro del Partito Democratico, alla Presidenza della Repubblica, che ha dato inizio alla stagione di rottura con il nazionalismo e al dialogo con le potenze occidentali, in primis con l’Unione Europea. È significativo a questo riguardo come nel 2008, a seguito delle elezioni politiche, il Partito Radicale Serbo, massima espressione del nazionalismo di destra, abbia subito la secessione della parte meno estremista, dalla quale si è formato il Partito del Progresso, filoeuropeista e possibilista sul tema della cooperazione con il Tribunale de L’Aja.
L’identità geopolitica di Belgrado
La Serbia rappresenta, almeno sul piano potenziale, una grande opportunità per l’Unione Europea, sotto diversi punti di vista. La posizione geografica, le caratteristiche culturali e religiose, la storia stessa della regione balcanica, ne fanno un Paese particolarmente strategico per le relazioni Est-Ovest. Situata nel cuore del Balcani, la Serbia costituisce da sempre una realtà geopolitica sfaccettata e complessa, a metà tra due mondi, ad entrambi dei quali è legata in modo indissolubile: a Est, l’affinità culturale, l’alleanza politica e strategica di lunga data con la Russia; a Ovest, il passato asburgico che la spinge verso il Vecchio Continente. La Serbia guarda oggi in entrambe le direzioni, cercando di giocarsi le proprie carte in entrambe le partite, forte di una posizione strategica che potrebbe rivelarsi decisiva per lo sviluppo delle relazioni tra l’Unione Europea e la Russia.
In questo contesto, è rilevante soprattutto l’importanza che la Serbia potrebbe assumere dal punto di vista della sicurezza internazionale. Infatti, Belgrado fonda da sempre la sua politica di difesa sull’amicizia con Mosca, prediligendo fino ad ora questa linea a quella di un’eventuale adesione all’Alleanza Atlantica, ad oggi la principale organizzazione internazionale per la collaborazione in campo militare. Putin si è ripetutamente schierato contro un eventuale allargamento della Nato alla Serbia, dichiarando di fatto come, dal punto di vista russo, per Belgrado una cooperazione militare in seno alla Nato sarebbe ancora oggi inconciliabile con l’alleanza russo-serba. Le ragioni di queste affermazioni risiedono forse nel fatto che, con un simile evento, si consoliderebbe intorno alla Russia un cordone di Stati militarmente alleati tra loro, ma non alleati con Mosca. Tuttavia, resta pur vero che la Russia stessa collabora con la Nato nell’ambito del progetto Partenariato per la pace (e di cui fa parte anche la stessa Serbia), creato nel 1994 proprio per allentare le tensioni tra l’Alleanza Atlantica, l’ex Unione Sovietica e gli Stati esterni alla Nato.
Destinazione Bruxelles
Con la consegna di Mladić al TPI, Belgrado ottempera a una condizione chiave per l’adesione del Paese all’Unione Europea: la collaborazione con la giustizia internazionale. Nell’annunciare la notizia, il Capo dello Stato ha descritto l’arresto di Mladić come un importante servizio reso alla causa europea, con il quale la Serbia si aspetta quindi di compiere un passo avanti nel suo percorso di integrazione.
L’attuale scelta europeista di Belgrado è determinata soprattutto dalle opportunità di tipo economico che l’Unione Europea offre su questo piano. L’interesse dell’UE per la Serbia è parimenti riconducibile a motivazioni di questo genere ed è dettato tra l’altro da valutazioni circa l’impatto che l’ingresso di Belgrado potrebbe avere sul delicato equilibrio delle relazioni Mosca-Bruxelles, soprattutto per quanto riguarda la questione dei rifornimenti energetici verso l’Europa. D’altra parte, l’esperienza delle recenti crisi del gas naturale, ha portato alla ribalta il tema della sicurezza degli approvvigionamenti, spingendo gli Stati verso lo sviluppo di possibili soluzioni. Per rispondere a questa necessità, le compagnie Gazprom e Eni puntano sul progetto South Stream, volto alla costruzione di un gasdotto che giunga dal territorio russo all’Europa aggirando l’Ucraina, in modo tale da evitare che le tensioni tra Mosca e Kiev siano nuovamente all’origine di una crisi energetica di portata continentale. Affinché ciò sia possibile, il tracciato prevede il passaggio del gas attraverso la Serbia, che acquisterebbe così una grande importanza nel rifornimento energetico dell’Europa. Bruxelles, da parte sua, persegue invece la diversificazione delle fonti di approvvigionamento, attraverso la promozione del progetto Nabucco. L’intento è quello di creare un Corridoio Sud, una rete unificata di gasdotti che, attraverso i territori di Paesi già membri e della Turchia, riceva idrocarburi dal Caucaso e dal Mar Caspio, diminuendo così la dipendenza energetica dell’Unione Europea dalle forniture russe.
Al di là di queste esigenze, tra gli obiettivi prioritari di Bruxelles rientra anche la conclusione dei cosiddetti corridoi pan-europei, vie di comunicazione destinate a collegare i Paesi dell’Europa Centrale e Orientale. Un allargamento dell’Unione Europea alla Serbia avrebbe probabilmente l’effetto di facilitare il completamento del decimo corridoio, quello che collegherà l’Austria alla Grecia, passando per i Balcani. In questo senso, per Bruxelles l’adesione di Belgrado significherebbe procedere nella sua opera di allargamento all’area balcanica, accogliendo un Paese che per quella regione è stato a lungo un fattore di destabilizzazione tra i più influenti.
Le relazioni Serbia-UE
L’ammissione della Serbia al Consiglio d’Europa segnò, nel 2003, l’intensificarsi del confronto con i Paesi occidentali e, simbolicamente, un ingresso ancor più deciso del Paese nell’orbita europea. Del resto, l’interesse di Bruxelles verso Est si era già manifestato con la definizione, a partire dal 1992, della politica europea di allargamento ai Paesi dei Balcani Occidentali, che ebbe inizio con la creazione, per mezzo dell’Accordo CEFTA, di un’area Centroeuropea di Libero Scambio. Sottoscritto inizialmente da Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria, per poi allargarsi agli altri Paesi dell’area, l’accordo disciplina la liberalizzazione commerciale della regione, nell’ottica di un’intensificazione delle relazioni economiche tra gli Stati coinvolti e, in prospettiva, tra essi e l’Europa occidentale. Le disposizioni contenute nel trattato stabiliscono oltretutto che solo gli Stati che abbiano firmato un Accordo di Stabilizzazione e Associazione con l’Unione Europea possano divenire membri UE. Il percorso di integrazione così intrapreso è proseguito poi proprio sulla base del processo di Stabilizzazione e Associazione, ideato da Bruxelles al fine di conformare il sistema istituzionale, economico e normativo di tali Paesi agli standard europei contenuti nei “criteri di Copenaghen” [1]. Il piano si sostanzia nella sottoscrizione di Accordi bilaterali volti a individuare apposite linee di sviluppo per ciascuno Stato dell’area. Gli aiuti finanziari per favorire il raggiungimento di tali fini, sono attualmente erogati attraverso lo Strumento di Assistenza per la Pre-adesione (IPA), creato nel 2007. Il programma distribuisce finanziamenti ai “Paesi candidati” e ai Paesi che come la Serbia sono ancora “potenziali candidati”, e in quanto tali beneficiano di aiuti volti a sostenere la transizione e lo sviluppo istituzionale e a rafforzare la cooperazione regionale e transfrontaliera.
L’Accordo di Stabilizzazione e Associazione tra Serbia e Unione Europea, così come l’Interim Agreement in materia commerciale, vennero firmati da Tadić nell’aprile 2008, nonostante il parere contrario del governo, all’epoca guidato da Koštunica. Solo un mese dopo, le elezioni per il rinnovo del Parlamento, decretarono l’ascesa del governo Cvetković, schierato su posizioni decisamente filo-europeiste. All’entrata in vigore dell’Interim Agreement e alla liberalizzazione dei visti per i cittadini serbi che si recano nei Paesi dell’area Schengen, avvenute nel 2009, è seguita, nel corso dello stesso anno, la domanda di adesione presentata dalla Serbia all’Unione Europea. Quanto all’Accordo di Stabilizzazione e Associazione, invece, il processo di ratifica è stato avviato nel giugno 2010.
Da parte sua, il Commissario all’Allargamento Štefan Füle, pur dimostrando di apprezzare la prova di affidabilità data da Belgrado con la cattura di Mladić, ha rimarcato come, per l’ingresso della Serbia nell’Unione Europea, l’arresto e l’estradizione del criminale siano condizione necessaria ma non sufficiente. L’accelerazione del processo verso l’adesione, che dopo tale evento Belgrado auspica ancor più fortemente, si scontra con i numerosi criteri e adempimenti imposti da Bruxelles. Innanzitutto, Tadić e il governo serbo sono chiamati a proseguire sulla strada intrapresa e ciò significa chiudere i conti con la giustizia internazionale, giungendo a consegnare al Tribunale de L’Aja l’unico latitante ancora a piede libero, Goran Hadžić, indicato come il responsabile del massacro di Vukovar. Il futuro europeo della Serbia passa però anche attraverso la riforma della giustizia, necessaria per garantire l’imparzialità dei giudici e ridurre gli alti rischi di commistione con interessi politici, la riforma della pubblica amministrazione, la lotta alla corruzione e al crimine organizzato. Il Progress Report 2010 della Commissione Europea sulla Serbia, annovera tra gli obiettivi prioritari anche la protezione dei diritti umani, la tutela dei diritti delle minoranze, dei rifugiati e degli sfollati ancora presenti nel Paese. Ulteriori sforzi sono necessari anche nel campo dell’istruzione, dei trasporti, della protezione ambientale e delle relazioni con gli Stati confinanti, soprattutto in relazione alla questione della sicurezza.
Equilibri regionali
Con l’estradizione di Mladić si apre un varco alla possibilità di una riconciliazione regionale, o, se non altro, viene meno uno dei motivi di risentimento degli altri Paesi balcanici nei confronti della Serbia. E d’altronde, l’autorità di Belgrado nell’area è andata sempre più ridimensionandosi anche a causa della riduzione territoriale seguita alla secessione del Montenegro nel 2006 e all’indipendenza del Kosovo nel 2008. Su quest’ultima questione grava il peso delle colpe di Milošević, responsabile di aver represso le spinte indipendentiste del Kosovo sul finire degli anni Novanta. Di queste colpe la Serbia di oggi paga le conseguenze, in termini di credibilità internazionale e di ordine interno. Si tratta di un nodo tra i più difficili da sciogliere, anche perché, sebbene abbia spinto per una normalizzazione dei rapporti tra Belgrado e Pristina promuovendo i colloqui iniziati nel marzo scorso, è pur vero che l’Unione Europea stessa rimane divisa sul tema del riconoscimento. Cinque Paesi membri, capitanati dalla Spagna, non sembrano voler cedere su questo punto, così come è determinata la Russia, forte del proprio seggio permanente al Consiglio di Sicurezza ONU, a difendere l’integrità territoriale della Serbia.
Restano però due fatti. Innanzitutto, la cooperazione regionale costituisce uno dei criteri politici per gli Stati che aspirano alla membership comunitaria. Proprio questa circostanza può far sperare in un allentamento della tensione tra Belgrado e Pristina, se non sul tema della sovranità se non altro sui delicati problemi del controllo sui confini, del traffico aereo e della libertà di movimento, oggetto dei negoziati in corso. In secondo luogo, l’indipendenza del Kosovo, Provincia Autonoma in base alla Costituzione serba, è stata riconosciuta da 22 Paesi dell’Unione Europea e dichiarata legittima dalla Corte Internazionale di Giustizia. Tenendo conto di questo fatto, l’accettazione dell’indipendenza della regione da parte di Belgrado, potrebbe avere l’effetto di smorzare l’opposizione dei Paesi ancora scettici circa la sua adesione all’UE. Ciononostante, è bene precisare che, come ha ribadito Barroso di recente, ciò non rappresenta una pre-condizione per l’ingresso della Serbia nell’Unione Europea
Il rallentamento che il processo di integrazione ha subito in questi anni, mette in evidenza come la tempistica dell’adesione sia determinata in questo momento storico soprattutto dagli interessi e dalle difficoltà contingenti dell’Unione Europea, che ne condizionano la volontà di continuare sulla via dell’allargamento. Il cammino della Serbia verso l’acquisizione dello status di membro potrebbe richiedere molto più tempo del previsto. Anche una volta soddisfatti i requisiti e ottenuta la candidatura, Belgrado potrebbe, infatti, dover essere costretta ad attendere a lungo l’avvio dei colloqui di adesione. Le esperienze di Macedonia e Croazia parlano in favore di quest’ipotesi: la prima, infatti, è candidata dal 2005 e ancora in attesa di una data per i negoziati; la seconda, ha da poco ottenuto il parere favorevole della Commissione ma non accederà all’Unione prima del 2013. L’esito del processo dipenderà dalla risposta che le forze politiche daranno alle forti spinte nazionalistiche ancora presenti tra la popolazione, nonché dalla capacità del governo di unire il Paese intorno alla causa europeista, in modo che, nel corso del tempo che sarà necessario, non si impongano volontà politiche che nullifichino gli sforzi fatti finora.
* Martina Franco è Dottoressa in Scienze Internazionali e Diplomatiche (Università di Trieste)
[1] Gli obiettivi di tale politica sono riassunti nei tre parametri stabiliti per l’adesione durante il Consiglio Europeo di Copenaghen nel 1993. Essi prevedono il rispetto di criteri politici, come l’esistenza di uno Stato di diritto con istituzioni stabili e democratiche che garantiscano il rispetto dei diritti umani e delle minoranze, ed economici, come la presenza di un’economia di mercato capace di reggere la pressione concorrenziale all’interno dell’Unione Europea. Infine, l’ultimo requisito si riferisce all’aderenza della legislazione alle normative europee, il cosiddetto acquis communautaire.